Tra storia e cultura
Ancora oggi, nel Salento, chi volesse condurre una seria ed approfondita inchiesta sulla condizione della donna dovrebbe intervistare qualche vecchia contadina dal volto scarno e dalle mani bitorzolute, per i troppi inverni passati fra le are degli olivi contorti per gli stenti e sofferenze delle stagioni siccitose.
Scoprirebbe prestissimo un passato di secolari frustrazioni, di consapevole sfruttamento da parte dei caporali alleati sempre con i padroni. Nelle schiene curve di umiliazione e sudditanza, difficilmente troverebbe rabbia repressa, ma solo cuori gonfi di libertà e anime ebbre d’amore e dignità.
Sì, perché il Salentino è un popolo che ha sempre sofferto in silenzio e in silenzio ha dipanato lenta la sua vita con le scadenze: nascere, amare, lavorare, patire, morire. Vissuta sempre su una terra povera di risorse, la donna meridionale, per sopravvivere, ha dovuto accettare salari bassissimi e subire discriminazioni e ricatti di ogni genere.
Reclutata da caporali senza scrupoli, la femmana è stata pagata la metà, rispetto al salario spettante all’ommu.
La paga giornaliera era stabilita dal padrone il quale si uniformava al deliberato volontario degli altri possidenti, dopo essersi convenientemente consultato. Chi non accettava o meglio osava “mettere lingua” era tacciato di maleducazione e licenziato in tronco. Trovare altro lavoro sarebbe stata impresa assai difficile.
Il lavoro della raccolta delle olive iniziava alle prime luci dell’alba e terminava al tramonto, te sole a sole, come si diceva, con il breve intervallo, dalle 12 alle 12,30, durante il quale si consumava la frugale merenda fatta, quasi sempre, di un pezzo di pane accompagnato da qualche matura e il tradizionale peperoncino piccante.
L’insieme delle raccoglitrici era ripartito in leve. Ogni leva, costituita generalmente da un gruppo di quattro o cinque donne, si dedicava alla raccolta delle olive cadute nell’aria, grazie all’operazione della spruatura (spiccamento). Alla leva poteva essere aggregato anche qualche bambino, che era impiegato nel raccattare le olive rimaste sui muriccioli a secco e sulle cijare (bordini di terra intorno all’albero).
Naturalmente il tutto si svolgeva sotto il vigile occhio del fattore che elargiva ammonimenti o sgridate annuncianti il licenziamento. A capo di tutte le donne c’era l’antiera (quella che stava avanti) con il compito di stabilire il ritmo del lavoro e favorire i rari collegamenti fra lavoratrici e padrone. Dietro seguiva lu ciucciu ossia la donna che spingeva il resto del gruppo uniformarsi al tempo dell’intera leva.
La femmana inesperta che non reggeva il ritmo delle altre, scuoteva il paniere, per farlo sembrare più colmo. Spesso tale operazione passava inosservata, ma tante volte si accorgeva il padrone che, con voce ferma, si rivolgeva alla donna con la frase:<<Sta se bruscia lu panaru?>>.
Spesso il freddo pungente dell’inverno rallentava l’operazione della raccolta perché le mani erano branculisciate (intirizzite). In questo caso ci si poteva scaldare un pochino con la pietra ancora tiepida, tratta dal fuocherello della mattina, alimentato con gli sterpi dei muriccioli a secco e con le ramaje.
L’adozione del paniere è entrata in uso in tempi relativamente recenti perché, ad immemorabili, si depositavano le olive in un tascone che le donne avevano cucito agli stiani (gonne tessute al telaio).
Queste specie di marsupio detto posciu poteva avere la capienza di un picciulu (Kg. 16,50) di olive e obbligava la donna a stare sempre piegata, senza possibilità di riposo.
Eppure in tutto questo scenario di squallore, di miseria e di avvilimento la vita continuava… Nasceva qualche amore, si progettava per l’avvenire e si dedicava al cielo qualche stornello di cui, ancora, l’eco si sente nell’aria.